SU GOLOGONE,
INDIMENTICABILE
Loc. Su Gologone, Oliena (Nu)
Su Gologone è un posto che non dimentichi.
A Su Gologone cominci ad arrivare quando in viaggio vedi per la prima volta il Supramonte e poi te lo ritrovi affianco o davanti per tutto il tempo. Lui è grande, calcareo, dolomitico e granitico.
Esercita su di me il fascino del mistero, delle storie antiche, dell’inaccessibilità. I racconti di Barbagia, dei banditi, di un tempo arcaico.
Io lo guardo stupita e per tutto il tempo non faccio che fotografarlo, sperando invano di catturarne l’essenza.
A Su Gologone ci puoi arrivare attraverso strade in cui ad agosto non incontri quasi neanche una macchina, se abbassi il finestrino c’è un caldo sahariano e il profumo dei fichi d’India.
A Su Gologone ci arrivi sapendo che sarà unico ma poi lo è di più.
Le aspettative di solito ci fregano, ma qui non funziona così.
A Su Gologone si sta.
Sparsi nei vialetti di olivi e ginepri. Gli alberi dai tronchi ricurvi che sembrano infilarsi nelle camere. Dappertutto poltroncine e salottini per sedersi a respirare l’aria che riesce ad esserci anche in un giorno con 45 gradi.
Si sta, e si sta in silenzio, perché questo è un posto che ci racconta della storia e del passato, dei costumi e della tradizione. I camini giganteschi accesi anche ad agosto per cuocere i porcetti, la cotenna croccante.
I più buoni mai mangiati nella mia vita.
I vassoi di dolcetti sardi, eleganti come sanno esserlo le donne sarde in costume, orgogliose. Ricamati di bianco, azzurro e argento come pizzi antichi, perfetti singolarmente e stupefacenti nel loro insieme. Cuori di oliena, i croccanti, gli anicini.
Le pentole in rame appese alle pareti, le ceste di vimini di ogni forma, la sedia di paglia vicino al camino. Ti immagini un tempo in cui si stava lì a lavorare in silenzio. Un tempo in cui c’era qualcuno seduto su quella seggiolina a guardare, a sostenere, a governare.
Ho ripensato, guardando quella seggiolina di paglia, alla seggiolina lombarda di cui parlava Beppe Severgnini in un suo articolo di qualche tempo fa. Quanto era scomoda quella seggiolina, ma quanto era importante.
A Su Gologone lo capisci che niente è improvvisato.
La professionalità non è una cosa che si improvvisa, la riconosci. È un qualcosa che viene dall’alto, trasmesso da una gestione familiare salda e antica. E che ritrovi in ogni persona che ci lavora, nella sapienza dei gesti e della cura.
A Su Gologone ho incontrato per la prima volta le galline in terracotta di Andrea Farci.
Se vi girate le troverete dappertutto, all’ingresso le scopro in una teca che sembra un presepe, gigantesche e circondate dai pulcini. Mi ricordano i miei bambini, non posso non portarmene a casa due attaccati alla mamma gallina, che sarei io.
Ci devi stare un po’ qui perché è come un piccolo borgo di strade e scale, una biblioteca e la stanza dell’olio, la via delle pietre colorate che porta più su.
Le candele fanno strada la sera e arrivi al giardino dei cactus, nella parte alta di Su Gologone.
Il cactus garden dedicato a Sergio Bonelli e a Tex mi emoziona particolarmente perché oggi in effetti sembra di essere nel deserto.
Scopro solo qui che Galeppini, che insieme a Bonelli creò Tex, era di origini sarde. Molti fumetti furono ambientati alla sorgente di Su Gologone.
E poi le botteghe dell’arte con i laboratori, i cuscini dipinti, il nido del pane, la terrazza dei sogni e dei desideri per guardare le stelle di notte, esprimere un desiderio e poi chissà.
E alla fine trovo il mio angolo preferito, il Bar Tablao vestito di bianco che sta appunto in mezzo ai fichi d’India e saluta il Supramonte.
Io non lo so se vi capiterà mai di arrivare in Barbagia. La Sardegna è tante cose insieme e più la giro e più mi convinco che non basterà una vita.
Ricordatevi di Su Gologone, se passate di qui.
Ma guarda un po’ tu se un uomo che per tutta la vita ha combattuto contro i mulini a vento, soffrendo per costruire il proprio sogno deve morire non appena ha raggiunto il risultato.
Così è stato per thiu Peppeddu Palimodde, il mitico “inventore” di Su Gologone, lo straordinario albergo-ristorante di Oliena. Ora che è morto lo si può dire: un matto.
Che un bel giorno decise di mettere su quattro mura nel cuore del Supramonte di Oliena per arrostire agnelli da latte e morbidi tratalios da servire ad improbabili avventori che già per loro conto mangiavano tutti i giorni agnelli e tratalios.
Realizzò una struttura impossibile. In una Barbagia poverissima (a Nuoro in quegli anni non esisteva, di fatto, un solo ristorante), fuori dalle rotte turistiche (che in verità toccavano poco, negli anni Sessanta, anche il resto dell’Isola), arcaica e arretrata, Peppeddu Palimodde realizzò un ristorante tradizionale dove si poteva gustare la vera cucina casalinga. Se avesse affidato una ricerca di mercato a tutti quei bocconiani che oggi vanno per la maggiore vendendo fumo a tutto spiano gli avrebbero certamente riso in faccia.
Come, vuoi fare un ristorante in mezzo agli ovili per dare da mangiare piatti tradizionali a persone che hanno ancora le galline in casa? Ma come, decidi di realizzare un albergo nella patria dei banditi e dei briganti? Ma thiu Peppeddu era dotato di quella estrosa follia che, quando viene coronata dal successo, si chiama “genialità”. E quindi puntò sulla sua creatura il tutto per tutto. I primi ad arrivare furono i cacciatori cagliaritani e sassaresi. Poi un po’ di borghesia nuorese. Ma non bastava. Ed ecco che Palimodde, indebitandosi sino al midollo, realizzò un albergo in modo tale da portare i turisti in Barbagia per tenerceli qualche giorno. Il resto è storia: il successo arrivò con lo stesso impeto con il quale le falde del Supramonte di Urzulei portano l’acqua alla splendida sorgente di Su Gologone.
Antonangelo Liori
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