45 - 5 Settembre 2017

MAURIZIO DE GIOVANNI E LA MIA NAPOLI

rondini d'inverno di maurizio de giovanni

Ho incontrato e ascoltato rapita Maurizio De Giovanni in una di quelle rassegne di libri, non doveva essere nulla di più.

È capitato che una sera ad Olbia io abbia fatto un viaggio nella Napoli che amo, la mia Napoli.

Non potevo sapere che ne sarei rimasta folgorata, andando indietro a rivangare nelle mie radici. Napoletane, appunto. 

Le radici ci chiamano, sempre, ma se sono napoletane forse un po’ di più. Per via di tutto quel casino e quell’eccezione e quell’eccesso che significa avere sangue napoletano nelle vene.

Parlo di libri di solito, in questa mia rubrica. Meglio un libro bello, che uno brutto. E per la prima volta parlo di un autore. Che ci racconta, un po’ mi racconta, che quando leggiamo un libro facciamo solo quello. Questa sera Maurizio De Giovanni me lo dice, ci penso un secondo, non ci avevo mai davvero ragionato. Caspita, è vero.

Quando guardiamo un film o siamo a teatro, possiamo anche talvolta fare altro. Non si dovrebbe, ma si può. WhatsApp, Instagram, Facebook per esempio.

Ma quando leggiamo leggiamo e se per caso ci distraiamo dobbiamo tornare indietro alla pagina in cui ci siamo persi, se no non capiamo più il resto. E se ci perdiamo perché pensiamo ai fatti nostri, vabbè forse non era il nostro libro, aggiungo io.

Vi parlo di Maurizio De Giovanni come lettore: non può immaginare una vita senza leggere.

Come non può immaginare una vita senza respirare. Era questo che faceva nella sua vita precedente, oltre che lavorare in banca. Leggeva sempre, un libro in mano anche fuori casa, sempre stato un lettore insaziabile. 

Non sapeva però di essere uno scrittore. E allora vi parlo di lui come scrittore.

Che fino a 47 anni non aveva scritto neanche una parola in vita sua. Che crede che fare lo scrittore sia come fare la guida turistica: a pagina 2 devi già essere partito per il viaggio. A pagina 3 è già troppo tardi.

Maurizio De Giovanni ti racconta che scrivere è più facile che cucinare un primo piatto, che lui assembla solo gli ingredienti.

No, non è così volevo alzare la mano e dirtelo Maurizio De Giovanni. Tu hai un dono, gli altri no.

Poi succede che a 47 anni i suoi colleghi lo iscrivono ad un concorso letterario al Caffè Gambrinus in Piazza Plebiscito a Napoli. Una specie di scherzo, doveva essere. Che invece gli cambia la vita. Perché lui ci va a questo concorso e lì gli dicono che deve scrivere un racconto giallo. Così, al momento. Lui spera che il tempo passi mentre si guarda intorno e gli altri concorrenti scrivono come i pazzi.

Poi arriva una bambina che gli fa una smorfia attraverso un vetro. E lui pensa: e se questa bambina fosse morta e parlasse ad un commissario di polizia? E se il tutto fosse ambientato negli anni Trenta, proprio come il Gambrinus?

Si chiamano ispirazioni, vorrei sempre alzare la mano e dirtelo Maurizio De Giovanni. Non so se si tratti di fortuna, come dici tu con modestia.

Vi parlo di Maurizio De Giovanni come napoletano. Io che lo sono per metà anche se ho la faccia milanese. Ma il sangue non lo freghi e la mia metà di sangue napoletano stasera stava per piangere. Quando hai raccontato di cos’è Napoli, delle sue storie di vicoli, dei quartieri, delle comunità in cui tutti si aiutavano. Dei femminielli che fino a metà Ottocento nei quartieri di Napoli erano venerati, come un dono di Dio.

Dei suoi mille colori, gli stessi di Pino Daniele, dei suoi mille punti di vista, non sono tutti belli, lo so. Però. 

E della tua mamma nata nel 1930, ho ripensato al Voi della mia nonna, a quei suoi occhi azzurri che da piccola non capivo come facessero ad essere napoletani. Non erano tutti scuri i terroni? Ho ripensato al suo “sono bene” invece che “sto bene”, un’eredità francese forse.

E stasera quando hai detto che ogni napoletano è uno scrittore, quando tutti i presenti in questa stanza ad Olbia in Sardegna ti ascoltavano senza fiatare, avrei voluto dirti che non è vero, ma un po’ sì. Perché se tu un napoletano lo conosci, se tu a un napoletano vuoi bene, se Napoli la ami attraverso i suoi occhi, è così. Hai ragione tu. 

Perché siete nati e cresciuti in mezzo ai milioni di storie che fanno di Napoli la culla della nostra cultura. E chi se lo è dimenticato, o non lo ha mai saputo, ha un grosso buco di cultura, appunto.

Perché come hai detto tu stasera, Maurizio De Giovanni, non si può spiegare e non si può sintetizzare cosa sia la canzone napoletana per un napoletano.

Forse è un pezzo del suo cuore che si è staccato da lui e va in giro per il mondo. Forse è la sua infanzia e la sua origine.

Io so solo che stasera ci hai parlato di tre canzoni attorno alle quali hai sviluppato tre dei tuoi romanzi. E ce le hai raccontate come ha fatto tanti anni fa con me una persona che non dimentico. Mi portava in giro per i locali di Napoli e mi traduceva simultaneamente i testi delle canzoni. Mi parlava dei vostri poeti, mi spiegava le storie di queste canzoni. Come hai fatto tu stasera. Del tradimento, della smania, della palomma ‘e notte, delle cerase rosse e di quello che succedeva a maggio.

Io quelle parole di quel signore anziano che amo più di un parente vero non le ho mai dimenticate. E quelle canzoni fanno parte della mia vita, così come stasera me le hai fatte rivivere tu.

Si ‘sta voce, che chiagne ‘int’ ‘a nuttata,
te sceta ‘o sposo, nun avé paura…
Vide ch’è senza nomme ‘a serenata,
dille ca dorme e che se rassicura…
Dille accussì: “Chi canta ‘int’a ‘sta via
O sarrà pazzo o more ‘e gelusia.
Starrà chiagnenno quacche ‘nfamità.
Canta isso sulo. Ma che canta a ffà?”

Musica: Ernesto De Curtis
Versi: Eduardo Nicolardi
Anno: 1904

 ∼

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2 comments

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