IL TRENO DEI BAMBINI
DI VIOLA ARDONE
Einaudi 2019
Il treno dei bambini è un libro perfetto, non so definirlo in altro modo.
Quando ho iniziato a leggerlo mi aspettavo un libro di denuncia e invece ho trovato un libro sulla vita, sulla speranza, sulla sopravvivenza.
Io dei bombardamenti mi ricordo il rumore delle sirene e gli allucchi della gente. Mia mamma mi prendeva in braccio e si metteva a correre. Andavamo nei rifugi e lei mi stringeva tutto il tempo. Io durante i bombardamenti ero felice.
Il treno dei bambini è ambientato in 2 momenti storici diversi: il 1946 e il 1994.
E quando ci sono questi sbalzi temporali, allora quello è il mio libro.
Amerigo Speranza, il protagonista de Il treno dei bambini, baratta, come da grande lucidamente dirà, tutto quello che aveva, cioè sua madre, la sua città, l’attaccamento primario di bambino, per i suoi desideri.
Sceglie la vita e rinuncia a sua madre, a 8 anni non è facile, non è gratis, ma lo decide l’istinto di sopravvivenza.
Il treno dei bambini ci racconta di un treno, appunto, che migliaia di bambini meridionali nel secondo dopoguerra presero grazie al Partito Comunista.
Amerì, a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene.
Riuscirono così a scappare dalla miseria, affidati a famiglie del Nord e del Centro.
Qualcuno pagò un prezzo più alto per questa nuova vita.
La vita è tornata normale, anche se niente è più come prima del treno.
Amerigo Speranza il treno da grande non riuscirà più a prenderlo.
Per lui il treno era il distacco, il dolore, la perdita.
Eppure grazie a quel treno, a chi lo accoglierà a Modena, troverà la sua strada e tenterà di dimenticare la sua origine.
Ma le origini non si dimenticano mai, bisogna farci pace e basta.
La stoffa antica e consumata dei ricordi, che fino a ora provavo a tendere per farla combaciare col presente, diventa d’improvviso della misura giusta e aderisce con precisione millimetrica ai miei occhi.
Lui ci riuscirà, a fare la pace con se stesso, con sua madre, con i suoi ricordi.
Quello che non ci siamo detti non ce lo diremo più, a me è bastato saperti dall’altra parte di quei chilometri di strada ferrata, per tutti questi anni, con le braccia conserte a croce sul mio cappottino. Per me è lì che resti. Aspetti, e non vai via.
Ci riuscirà un minuto in ritardo, quando capirà, comprenderà, perdonerà.
È successo di nuovo: ho lasciato che il tempo passasse e adesso è tardi.
Ne Il treno dei bambini c’è Napoli, c’è il dopoguerra, ci sono i bassi di Napoli.
Ci sono i bambini senza scarpe nei vicoli, la pasta con la genovese (quanto la amavo anche io), ci sono i racconti di mia nonna.
I bambini dei bassi di Napoli nel 1946 lavorano, si ingegnano, si industriano per portare a casa la giornata.
Quei bambini alla fine sopravvivono sempre, con le ferite nel cuore con cui dovranno fare i conti per tutta la vita.
Non c’è bisogno di sincronizzare il passato con il presente, è come se gli anni dalla mia fuga in treno fino a questo momento non ci fossero mai stati. Una parentesi lunga una vita, ma non sostanziale nella storia della nostra amicizia.
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