38 - 18 Novembre 2017

LA LUCE DEI GIORNI 

Jay McInerney
Bompiani 2016

copertina di la luce dei giorni Jay McInerney

Ciao Jay McInerney, mi eri mancato. Sono in ritardo.

La luce dei giorni è uscito da più di un anno e lo leggo solo ora.

Me lo sono tenuta qui, in attesa. Mi ha aspettato. Tu in fondo ci hai messo dieci anni a scriverlo, poteva aspettare anche me per un anno.

Con La luce dei giorni hai chiuso così la trilogia, l’avrai chiusa davvero?, cominciata nel 1992 con Si spengono le luci e proseguita con Good Life nel 2006.

Sono passati 32 anni da Le mille luci di New York, il tuo capolavoro, si dice che ne basti uno nella vita di capolavoro.

Come sempre c’è lei, New York, e tutto il tuo amore per lei qui dentro, a braccetto con la disillusione di quando si diventa grandi.

Persino i loft che avevamo sognato con te negli anni Ottanta, tutti vetrate e cemento, oggi cadono a pezzi, sono tanto scomodi quando diventi grande e ci devi vivere con i tuoi figli.

Per quelli come me tu sei la New York sognata da lontano quando avevamo 20 anni, quella delle feste esclusive, dei gin tonic bevuti al bancone, degli Hamptons come vacanze e della scrittura creativa come professione.

Nella mia splendida ignoranza sei stato per me la sicurezza dei tuoi titoli tutti allineati su uno scaffale della mia libreria.

L’America è cambiata mentre noi diventavamo grandi.

New York, che non è l’America,  è cambiata, Manhattan è cambiata, mentre noi invecchiavamo. 

Ma ormai che significa Manhattan? Di sicuro non quello che significava venticinque anni fa.

Ne La luce dei giorni, Jay McInerney, ci ricordi che solo a New York il sogno può diventare realtà.

E che mai come a New York si infrange contro la realtà.

C’erano una volta, non molto tempo fa, giovani uomini e donne arrivati in città perché amavano i libri, perché volevano scrivere romanzi o racconti o addirittura poesie.

Esserci nati o averla scelta poco importa, si è newyorkesi per elezione, un fatto di identità. Altrove, il nulla:

Questa era la città che aveva scelto tra tutti i luoghi del mondo; vivere in qualunque altro posto sarebbe stato come un esilio.

New York il centro del mondo, chi è fuori da lì è fuori e basta:

Vuol dire che sono una di quelle persone, per dirla con Updike, convinte che chiunque viva fuori da New York non stia, in qualche modo, facendo sul serio.

Gli anni Ottanta di New York, non lo sapevate nemmeno in quel momento che erano gli anni Ottanta.

Allora non eravamo consapevoli che fossero gli anni Ottanta. Nessuno ce lo disse fino al 1987, all’incirca, e a quel punto erano quasi finiti.

Quelli dei soldi facili, della finanza drogata, di Wall Street, dell’AIDS e della cocaina, dei club e degli eccessi, degli artisti che diventeranno leggendari, degli omosessuali che si innamoravano di una donna.

Sì, furono memorabili, se non che, come dicono, se riesci a ricordarli probabilmente non li hai vissuti.

Ne La luce dei giorni ci racconti dei reduci di quegli anni Ottanta, che sono diventati grandi, dimenticandosi un pezzo di quella vita sbandata.

Ci racconti di un matrimonio banale, forse, nel suo andare a picco e anche nel suo salvarsi, ostinato e imperscrutabile come ogni matrimonio sa essere.

I matrimoni migliori, come le navi migliori, sono quelli in grado di superare le tempeste, imbarcano acqua, tremano e si inclinano, quasi  si capovolgono, e poi si raddrizzano e veleggiano verso l’orizzonte.
La premessa è, dopotutto, nella buona o nella cattiva sorte.

Ho amato Corinne, i suoi cinquant’anni e la sua bellezza che sfiorisce. La sensazione che l’attanaglia che la vita le stia sfuggendo via rapidamente. 

La sua fragilità che diventa forza quando il gioco si fa duro davvero. La sua capacità alla fine di portare in salvo tutti.

Ho anche amato Russell che nel prendersi cura dei suoi figli cucina per loro e con loro. 

E sullo sfondo i disastri della mezza età, i tentativi piuttosto maldestri di essere felici, il sentirsi ancora giovani, le aspettative deluse.

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