51 - 18 Marzo 2018

LETTERA A MIO PADRE PER LA FESTA DEL PAPÀ

una lettera come regalo per la festa del papà

La prima lettera seria, un po’ pesante, delle mie insomma, credo di avertela scritta quando avevo 15 anni.

Volevo partire con un fidanzatino dell’epoca che tu non avevi nemmeno visto e ti ho lasciato una lettera sul comodino, di mattina presto.

Tu l’hai letta e mi hai detto di no.

No perché, dico adesso giustamente, tu papà non conoscevi nessuno di quei ragazzi con cui sarei andata a Forte dei Marmi.

Hai voglia a scrivere lettere per la festa del papà  o no.

Quel giorno mi hai detto no, ma mi hai anche insegnato un concetto semplice e chiaro: impara a chiedermi cose a cui io possa dirti di sì, capisci da sola, comincia almeno, a capire le cose che non mi puoi, che non mi devi chiedere.

Eppure, nonostante quel no, sono stata, grazie a te, grazie a voi, una bambina e poi un’adolescente libera.

A 7 anni dormivo fuori casa 2/3 volte alla settimana dalle mie due amiche del cuore.

D’estate, fin da piccola, sono sempre stata ospite per settimane intere (in giro per la Romagna e per l’Emilia che son due cose diverse, bada bene).

Un’infanzia libera, felice la mia.

Questa lettera a te per la festa del papà arriva dopo tanti anni. 

E te la scrivo ben sapendo che tu non la leggerai mai.

Vorrei dirti grazie, semplicemente.

Per avermi insegnato, senza teoria ma solo con la pratica, le cose più importanti che ho qui dentro.

La prima cosa che mi hai insegnato tu, papà, è la libertà.

Di pensiero, di fatto, di intenti, di mente.

Mi hai sempre detto fregatene, non pensarci, rimuovi se necessario.

So che la forza che ho, se mai ne ho, dipende da quello sguardo libero che hai sempre posato su di me.

Sono stata libera, grazie a te.

E lo sono anche oggi che non mi vincoli, non pretendi, non ti aspetti.

La seconda cosa che ho imparato, quella che mi fa sentire un pesce fuor d’acqua in questo mondo, è la modestia.

Il non considerare il soldo un valore, il successo un trofeo da esibire, il merito una bandiera da sventolare.

Non valutare le persone per quello che possiedono, per le case che hanno o i soldi che contano.

Possibilmente, non valutarle proprio.

Infatti, mi hai insegnato presto la terza cosa più importante della mia vita.

Non giudicare mai, nessuno.

Non credo di averti mai sentito esprimere un giudizio soprattutto negativo su un essere umano.

Nemmeno un giudizio su di me, sulle mie scelte, sulle mie decisioni.

Mi hai sempre lasciato libera di sbagliare, non mi hai mai dato le risposte che cercavo dentro di me.

Hai rispettato tutti i miei passi e i miei inciampi, con discrezione e rispetto.

E lo hai fatto anche quando quei passi mi portavano lontano.

Ho così imparato con il tuo esempio la tolleranza, l’apertura mentale, l’accettazione.

Le stesse che leggo nei tuoi occhi oggi verso il mio modo di essere mamma.

Un modo mio che non saprò mai quanto e se approvi, per il semplice fatto che tu non lo giudichi.

La quarta cosa che mi hai insegnato è stata parlare.

Anche piangere, urlare, litigare, sviscerare, tutto fuorché il silenzio.

Che non è mica scontato, sai.

Ho sempre saputo che tu c’eri, per parlare.

Lo sapevo soprattutto tardi la sera, quando rimanevi seduto sulla tua poltrona a fumare fino ad ore improbabili.

Quando da bambina ho avuto un periodo di insonnia e sapevo di trovarti lì. Pronto a prepararmi una camomilla e a berla insieme a me. Il nostro rito.

Ora torni a nanna, mi dicevi, e vedrai che quando verrò a controllarti tra dieci minuti tu dormirai. Ha sempre funzionato con me questa nostra magia.

Su quella poltrona mi hai ascoltato, la sera tardi, ogni volta che un peso mi opprimeva il cuore, ogni volta che non sapevo cosa decidere, ogni volta che avevo bisogno di piangere.

Mi hai aspettato quando non trovavo parcheggio sotto casa e allora ti citofonavo e tu scendevi per scortarmi.

Proprio tu che non hai mai avuto la patente e che mi hai guardato stranito quando ho deciso di farla.

Su quella poltrona nel cuore della notte mi hai sgridato quando tornavo, senza permesso, alle tre del mattino. Guardavo nel buco della serratura, vedevo la luce accesa, giravo la chiave e ti sentivo dire: “Ti sembra questa l’ora di tornare?”.

Perché ti raccontavo quasi tutto, ma non tutto. Come era giusto, come era normale.

La quinta cosa che mi hai insegnato è stata sbagliare.

Ho visto te sbagliare, quando eri un uomo nel pieno della tua vita.

Ti ho visto cadere e ho imparato molto in fretta, soffrendo molto, che si sbaglia.

Che la vita è un susseguirsi di errori.

Che tu sbagliavi, che io avrei sbagliato, che tutti sbagliamo. Ma che si può sopravvivere, si può rinascere, si può perdonare, si può andare avanti, si deve andare avanti.

Questa sarà l’eredità più grande che mi lascerai.

Ho imparato però che per gente come noi la cosa più difficile è perdonare se stessi.

La sesta cosa che mi hai insegnato è che non si fanno le questioni di principio.

Che si può cambiare idea, non ce ne frega niente della coerenza e di quello che avevamo detto prima.

E allora, a chi mi chiede come faccio a trovare la pazienza e il tempo oggi che hai 82 anni, di seguirti nelle tue vicende mediche o di rispondere magari a 5 telefonate al giorno per risolvere la tua settimana enigmistica, io rispondo che io tutto quel tempo te lo devo.

Perché per me tu sei ancora su quella poltrona lì, ad ascoltarmi come quando avevo 16 o 25 anni, senza giudicarmi mai.

Come quando, di sera tardi, ti ho detto che andavo a convivere con un ragazzo che tu non avevi nemmeno mai visto. E tu ti sei fidato. Ti sei fidato di me.

E poi quel ragazzo è diventato la mia vita, il papà dei miei bambini.

In questa lettera per la festa del papà che tu non leggerai mai, ti dico che so di assomigliarti nel gene del vizio, quello che dobbiamo tenere a bada, che ci faceva fumare o amare il gin tonic.

So di assomigliarti nell’inquietudine atavica che ci fa muovere freneticamente le gambe sotto il tavolo e talvolta sognare un po’ troppo in grande.

Nella passione per i posti belli, è tutta colpa tua in fondo se vivrei in albergo e mangerei solo al ristorante.

So di assomigliarti nel metabolismo favorevole, nei piedi ossuti, nella schiena storta e nel naso adunco.

Nell’allure da ricchi che ci portiamo dietro, come una condanna. E nell’amore cieco per Milano.

Ma so anche di assomigliarti nel dubbio, nel non sapere mai davvero che cosa è giusto e che cosa no, nell’assenza di certezza, nel tentare di vivere la mia vita senza badare a quella degli altri.

Si chiama umiltà? Non lo so, forse sì.

Ma io di tutto questo ti ringrazio.

Buona festa del papà.

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